Un racconto di Danilo Tassini sulla poco nota strage di Moggiona, avvenuta nel 1944, per celebrare l'immenente ricorrenza dell'anniversario della Liberazione dell'Italia.
Durante il secondo conflitto mondiale Moggiona, piccolo paese posto nelle immediate vicinanze di Camaldoli, venne a trovarsi sul tracciato della Linea Gotica, e un Comando dell’Organizzazione tedesca Todt si stabilì in paese.
Il 26 agosto 1944 tutta la popolazione fu fatta sfollare e trasferita in Romagna, a S. Ellero di Galeata. I tedeschi tuttavia trattennero in paese due o tre famiglie affinché svolgessero per loro varie mansioni.
Il 7 settembre 1944 i soldati tedeschi in ritirata abbandonarono Moggiona, rimaneva soltanto da far saltare i ponti, già minati, al fine di rallentare l’avanzata degli alleati.
Emiliano Benedetti, anziano di 71 anni, dalla finestra della sua casa osserva: “ Verso le 7 di sera giunsero in paese tre militari armati, i quali scambiarono parole con gli ultimi che partivano indicandosi l’abitazione della famiglia dove questi partenti avevano cucina. I tre si fecero dare del pane da quella famiglia, che era una di quelle che erano state trattenute in paese per i servizi, e dopo aver mangiato e bevuto nella vicina scuola, tornarono in quella casa e iniziarono a mitragliare. Sentii gemiti e lamenti”. Tutti i presenti in quella casa furono barbaramente trucidati. Caddero sotto i colpi della mitraglia: Francesco Meciani di 69 anni; Isola Benedetti, sua moglie, di 64 anni; Alfonso Meciani di 60 anni; Vittorio Meciani di 14 anni; Pietro Alinari di 59 anni.
I soldati si portarono poi in una casa vicina. Lì viveva la famiglia Ceccherini, fatta restare in Moggiona in quanto la madre, vedova, era sarta. Quella sera in quella casa si erano radunate per la cena più persone: oltre alla famiglia Ceccherini (madre, cinque figli piccoli e un cuginetto) anche i proprietari della casa, i Meciani, ed altri a vario titolo. I tre soldati fecero riunire tutti in cantina.
Aurelio Ceccherini, bimbo di 12 anni, così rievoca, con estrema sofferenza, quello che accadde: “Stavo tornando a casa dalla fonte dove mi ero recato, assieme al mio fratellino Osvaldo, per prendere l’acqua. I tre cominciarono a sparare. Io, che ero vicino alla porta, scappai fuori. Mi spararono ma non mi colpirono. Il mio fratellino Osvaldo di 9 anni invece era corso in casa dalla mamma. Quando i tedeschi se ne andarono io entrai in casa. Era buio. C’era il sordomuto Giovanni Meciani, nascosto dietro ad un tino, che si lamentava con tutte le sue forze. C’era mia sorella Clara, di 14 anni, distesa a terra che perdeva sangue da tutte le parti. Cercai di soccorrerla ma mi disse – non puoi fare più niente per me -. C’era mia mamma Maria che perdeva sangue da una gamba e dal petto e che teneva stretto il mio fratellino Francesco, rimasto incolume. C’era mio fratello Osvaldo morto. Andai a cercare un pezzo di lenzuolo e lo spirito che si teneva in casa, al piano superiore. Lì trovai la mia sorellina Teresa incolume e la piccola Felicina Meciani. Azelia Meciani, gravemente ferita, mi chiedeva di portarle acqua, e lo feci. Accesi una candela con i fiammiferi che trovai in tasca ad uno dei morti. Da fuori sentii – ancora italiani?- Erano i soldati che facevano saltare il vicino ponte. Spensi la candela e mi accovacciai accanto alla mamma, insieme agli altri bambini. Rimanemmo tutta la notte fermi e zitti: eravamo terrorizzati”.
La mattina seguente i lamenti erano finiti. I feriti erano morti, ad eccezione della mamma di Aurelio che tuttavia non poteva muoversi. In quella casa si contarono 11 morti. Altre due cadaveri vennero trovati al di là del ponte fatto saltare: erano quelli di Roselli Jole di 34 anni e della figlia Luigina di 10 anni.
Felicina Meciani, una dei piccoli sopravvissuti alla strage ricorda: “Quando la mattina dopo venimmo via di laggiù, trovammo due soldati italiani. Mi è sempre rimasto in mente un nome: Cavallini. Così lo aveva chiamato l’altro. Questi disse – noi fare kaputte – ma l’altro disse – no, non lo vedi che sono bambini, lasciamoli passare”.
Le due case delle stragi vennero poi minate e fatte saltare per aria per simulare un bombardamento, e i cadaveri rimasero sepolti sotto le maceria fino al 30 settembre.
Nel novembre del 1944 il Sergente inglese Charles Edmondson, incaricato di indagare sulla strage di Moggiona, dopo aver raccolto una serie di deposizioni, scattato foto e girato video chiudeva la sua indagine sulle atrocità commesse dalle truppe tedesche in Moggiona. Nelle conclusioni della Relazione Finale si legge:
“ (…) Si sarà visto da questo Rapporto e dagli Allegati che nella zona non vi era alcuna attività di sostegno, e che il Tenente e il Sergente, che erano bevitori e dediti alle donne, furono i responsabili, e commisero le atrocità per divertimento”.
Le macerie della casa della prima strage (oggi bar di Moggiona) fatta saltare per simulare un bombardamento.
Foto in alto: un soldato inglese (probabilmente il Sergente Edmondson) parla con il testimone Emiliano Benedetti difronte alle macerie della seconda casa delle stragi.