di Francesco Lemma
Nell’agosto 2020 mi è stato chiesto di documentare fotograficamente le faggete vetuste patrimonio Unesco di tutta Italia. Un compito complesso, ma, ancor più, una fantastica esperienza. Fotografare una foresta potrebbe sembrare piuttosto semplice: gli alberi non scappano. La realtà è decisamente più complicata; rappresentare una faggeta vetusta significa mostrarne i molteplici aspetti che la caratterizzano, le peculiarità del sistema vegetale, la ricchissima fauna, i complessi rapporti tra gli esseri che la costituiscono.
Le foreste visitate, con obbligati aspetti in comune, si sono rivelate estremamente diverse tra loro: a volte colori tenui e delicati rivelavano atmosfere di grande tranquillità; altre, tinte marcate e forti contrasti davano a quei luoghi vivacità e dinamismo. La fauna presente e le piante complementari contribuivano a donare ad ogni luogo una sorprendente unicità. Avevo la sensazione di poter apprezzare i diversi “caratteri” delle faggete: ad esempio, nella Foresta Umbra, camminando tra le pietre calcaree e i tassi millenari, avevo un’impressione di austerità e complessità. La faggeta di Oriolo Romano invece, nascosta tutt’intorno da arbusti e altri alberi, piccolo gioiello incastonato in una zona fortemente antropizzata, nel suo cinguettante silenzio, mi appariva timida, quasi a volersi nascondere alla chiassosa invadenza delle città circostanti. Dalla sua vetta, la faggeta del Cimino dominava spavalda i paesi sottostanti, mentre quelle casentinesi, abruzzesi e del Pollino apparivano come fuoriuscite da saghe fantasy: rigogliose, non si curavano minimamente di ciò che le circonda, forti delle intere montagne che ricoprono, dei tumultuosi torrenti che possiedono, delle moltitudini di insetti, mammiferi e uccelli cui offrono riparo!
Le percezioni personali viaggiavano di pari passo alle continue scoperte naturalistiche che questi ambienti regalano: incontri insperati come il raro geotritone in casentino, come il gruppo di allocchi che cantavano a pochi metri da me nella fredda notte sotto la Coppola di Paola o come l’orsa che ribaltava le pietre in cerca di insetti insieme ai suoi piccoli in Abruzzo, non rappresentano che una piccola parte dell’immensa varietà di fauna ospitata da queste faggete. Vedere la rosalia alpina uscire dai fori dei tronchi morti o pipistrelli come l’orecchione e il barbastello usare come rifugio diurno le cavità dei grossi alberi ha significato un’incredibile opportunità, nonché grandi sfide dal punto di vista tecnico.
Essendo molti gli elementi da ritrarre, ho avuto necessità di un’ampia disponibilità di attrezzatura: dai grandangoli per mostrare la maestosità delle volte arboree, ai medio-teleobiettivi per cogliere le prospettive dell’alternarsi dei grandi tronchi. Per ritrarre gli animali più schivi erano d’obbligo i lunghi super-teleobiettivi, mentre per i più piccoli dovevo usare più di una lente macro. Tra i principali problemi del fotografare in foresta ci sono i forti contrasti di luce e la pressoché perenne scarsità della stessa. Ad obiettivi e macchine si andavano quindi ad aggiungere flash, fari e cavalletti. Portare un bel po’ di peso su ripidi sentieri per diverse ore non è stato sempre facile, ma le emozioni ottenute in cambio hanno ampiamente ripagato degli sforzi!
L’esperienza, più coinvolgente di quanto mi sarei aspettato, con tutti gli episodi e le avventure, le difficoltà e le soddisfazioni, oltre a donarmi una maggior conoscenza, ancor più ha accentuato una consapevolezza che spero di trasmettere ad altri con i miei scatti: la conservazione di questi insostituibili scrigni di vita, di biodiversità e di meraviglia è una assoluta necessità. Il riconoscimento Unesco sottolinea il grande rispetto con cui tutti noi dobbiamo avvicinarci a questi delicati, preziosissimi ambienti.